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Cristianesimo e Zen

estratto da La Civiltà Cattolica, 6 febbraio 1999

Molte persone oggi in Italia e in altri Paesi europei sono attirate dal buddismo. I motivi che le spingono alla pratica buddista sono di diversa natura. Non prendiamo qui in considerazione quelli che cercano in qualche pratica buddista il mezzo per stare fisicamente in forma, per acquistare calma e concentrazione allo scopo di compiere meglio e senza subire stress psicologici il proprio lavoro. Per queste persone il buddismo ha un valore terapeutico di ordine psicofisico: cosa certamente apprezzabile; ma che non costituisce né lo scopo né il valore del buddismo. Le riflessioni che qui facciamo riguardano quelle persone che sono scontente del vuoto spirituale della civiltà occidentale materialista e consumista e non sono soddisfatte di quanto offre il cristianesimo, sia perché esso esige la fede in verità e dogmi che a loro paiono contraddire la ragione, sia perché impone pratiche religiose che a loro sembrano avere del magico, sia perché impone la sottomissione all'autorità della Chiesa avvertita come minaccia alla libertà religiosa, sia infine perché nel cristianesimo attuale sembrano trascurate la dimensione meditativa e contemplativa e la ricerca interiore. Tali persone si rivolgono al buddismo, perché lo ritengono capace di rispondere al loro bisogno di dare un senso alla vita e alla loro ricerca spirituale di una profonda vita interiore, senza imporre loro né dogmi incomprensibili né pratiche religiose obbligatorie, né sottomissione ad autorità umane.

In particolare, in queste nostre riflessioni, abbiamo presenti due categorie di cristiani: quelli che da cristiani divengono buddisti attraverso un processo di vera e seria "conversione" al buddismo, per cui abbandonano la fede cristiana e la Chiesa e fanno dell'insegnamento del Buddha il loro sistema di pensiero e il principio del loro agire morale, e diventano monaci in qualche monastero buddista oppure diventano abituali praticanti buddisti; e quelli che mantengono salda e ferma la loro fede cristiana e la loro adesione alla Chiesa e non hanno nessuna intenzione di divenire buddisti, ma ritengono che la meditazione buddista praticata nello zen possa aiutarli a rendere più profonda, più attenta e più intensa la loro preghiera; più calma, più tranquilla e più serena la loro vita di relazione e di lavoro; più profonda e contemplativa la loro vita interiore e, perciò, divengono "praticanti" di corsi di zazen.

Non vogliamo però parlare del buddismo in generale, […], ma soltanto di una forma di buddismo che oggi gode nel nostro Paese di un particolare favore: il buddismo zen. Ci sono in Italia, stabilmente o per qualche tempo, maestri di zen (zenji), che provengono dal Giappone, ma ci sono anche maestri di zen italiani, come Fausto Taiten Guareschi. Questi, dopo essere stato discepolo di Taisen Deshimaru e poi di Narita Shuyu, abate del tempio Todenji in Giappone, dal quale ha ricevuto la "trasmissione" secondo la linea soto, ha fondato sulle colline di Bargone, tra Fidenza e le terme di Salsomaggiore, il primo tempio zen soto italiano, Shobozan Fudenji, il "Tempio dell'universale trasmissione del puro Dharma". Questo tempio zen è organizzato nella maniera più tradizionale dei templi zen giapponesi: ospita monaci stabili ed è frequentato da molte persone che si recano a "praticare" lo zen per alcuni giorni sotto la guida di un maestro. È anche un centro di studi buddisti. In Italia ci sono poi molti libri, di autori stranieri e italiani, dedicati allo zen. Esistono traduzioni di opere dei grandi maestri zen, come il Breviario di Soto Zen di Reiho Masunaga, che traduce il Sho-begenzo Zuimonki del fondatore del soto zen, Eihei Dogen (1200-53), pubblicato da Ubaldini (Roma, 1971).

Ci sono infine cristiani che hanno parlato della possibilità di conciliare zen e cristianesimo, usando il metodo zen per giungere a una preghiera cristiana più "profonda". Così, W. Johnston ha scritto Lo Zen cristiano (Roma, Coines, 1974); Th. Merton è autore di Mystique et Zen (Paris, 1972); il gesuita missionario in Giappone per molti anni, H. M. Enomiya Lassalle, ha scritto Zen, via verso la luce (Roma, Ed. Paoline, 1961) e Meditazione Zen e preghiera cristiana (Roma, Ed. Paoline, 1979). Particolarmente trattato è stato il tema del rapporto tra lo zen e la mistica cristiana: i mistici cristiani più citati sono Meister Eckhart, Tauler, Ruysbroek, santa Teresa di Gesù, san Giovanni della Croce e l'anonimo autore della Nube della non conoscenza (The Cloud of Unknowing.

Il primo - e il più difficile - problema che si pone è quello di capire che cos'è lo zen. È facile conoscere l'origine e tracciare le linee del suo sviluppo storico; ma è difficilissimo capirne la natura, perché, quando si crede di averla afferrata, essa sfugge, come un'anguilla sfugge di mano al pescatore.

Zen è un termine giapponese: esso è la lettura giapponese dell'ideogramma cinese ch'an, che è l'equivalente della parola sanscrita dhyana, che significa meditazione ed è una delle sei "perfezioni" (paramita) che rendono possibile il conseguimento dell'"illuminazione" (bodhi), Zen significa dunque meditazione. Essa si compie "stando seduti" (za): donde la parola zazen che significa "sedere in meditazione" in una apposita stanza che si trova in ogni monastero zen e che si chiama sendo (stanza [do] della meditazione).

Lo zen è una forma di buddismo: perciò il suo fondo dottrinale è il buddismo, nel senso che esso fa proprie alcune essenziali dottrine buddiste. Esse sono principalmente tre: anatta, anicca e dukkha. Anatta, in sanscrito anatma, ("non-io", "non-sé"), significa che l'"io", la "persona", il "soggetto", come centro spirituale, stabile e duraturo, che unifica tutte le attività dei sensi, dell'intelligenza, della volontà e dell'affettività, non esiste, o meglio ha un'esistenza illusoria. L'individuo umano è formato da cinque gruppi di "aggregati" (skandha) che sono in rapporto tra loro, senza però avere un unico referente. Essi sono il corpo con i suoi sei sensi: l'occhio, l'orecchio, il naso, la lingua, il tatto e l'organo del pensiero; le sensazioni che sorgono quando i sensi entrano in contatto con gli oggetti materiali; le percezioni che nascono dall'elaborazione delle sensazioni; gli impulsi spirituali, cioè le idee, le volizioni e desideri, che hanno origine dalle percezioni; e infine la coscienza, che è la consapevolezza delle percezioni e delle idee, delle volizioni e dei desideri. L'anatta è il concetto centrale del buddismo: senza di esso questo non esisterebbe. Esso significa che l'uomo, ritenendosi un "io", una "persona", vive nell'"ignoranza" (avidya) del suo vero essere che non è l'"io" fenomenico, e quindi vive nell'"illusione" (maya), da cui si libera con l'"illuminazione" (bodhi). Con questa egli prende coscienza che la sua vera natura è il "Sé", assoluto e infinito, con il quale l'"io" fenomenico si identifica. Tutti i mali dell'uomo vengono dalla credenza di essere un "io", un "sé" individuale, perché tale credenza "è la causa di tutti i pensieri pericolosi di "io" e di "mio", dei desideri egoisti e insaziabili, dell'attaccamento, dell'odio e della malevolenza, dei concetti di orgoglio, di egoismo e di altre sozzure, impurità e problemi. Essa è la sorgente di tutti i turbamenti del mondo, dai conflitti personali fino alle guerre tra le nazioni. In breve si può far risalire a questa falsa visione tutto ciò che c'è di male nel mondo" (Walpola Rahula, L'enseignement du Buddha, Paris, 1977, ch. VI: La doctrine du Non-Soi: “anatta".
Se la prima caratteristica fondamentale dell'esistenza umana è l'anatta, la seconda è l'anicca, in sanscrito anitya, che significa "impermanenza" e "insostanza": per il buddismo niente è durevole, niente ha consistenza e niente è sostanziale. Se a noi sembra che ci sia qualcosa di duraturo e di consistente, lo si deve al fatto che noi viviamo nell'ignoranza della realtà e quindi nell'"illusione". Perciò non ci si deve appoggiare su nulla né aggrapparsi a nulla, perché nessun essere ha consistenza e quindi non può offrire un punto di appoggio stabile e duraturo.

La terza caratteristica della vita umana è il dukkha, in sanscrito duhkha, che significa "sofferenza, dolore". Esso è causato in noi dalla "sete" (tanha) del piacere e da ogni specie di "desiderio": "sete" e "desideri" che tengono legato l'essere umano al "ciclo delle rinascite" (samsara) e dal quale ci si libera con l'"estinzione del desiderio", praticando il "nobile ottuplice sentiero", insegnato dal Buddha. Chi, col percorrere la "via" che egli ha indicato, giunge alla "saggezza" (prajña), che consiste nella comprensione intuitiva, sperimentale, dell'impermanenza, della sofferenza e della non-sostanzialità di tutte le forme di esistenza, e quindi giunge alla "liberazione" (moksha) totale e definitiva dalla necessità di rinascere e da ogni sofferenza, ha accesso al nirvana (o nibbana), che letteralmente significa "estinzione", vale a dire "estinzione delle turpitudini", ed è una maniera negativa di designare l'uscita definitiva dal mondo del dolore e dell'impermanenza.

Tuttavia è importante notare che queste dottrine buddiste restano nello sfondo dello zen, sia perché esso non è un sistema filosofico ma una "pratica", sia perché sono da esso reinterpretate. In realtà, se lo zen ha una matrice buddista, essa non è il buddismo primitivo, insegnato e praticato dal Buddha storico Sakyamuni (sec. VI a.C.), cioè il buddismo theravada o "dottrina degli anziani (theravadin)". Questo dai suoi avversari è detto sprezzantemente hinayana o "piccolo veicolo (di liberazione)", in quanto riserva la salvezza (moksha) soltanto ai monaci e ha come ideale di santità l'arhat o arahant, cioè il monaco che con estrema decisione e grandi sforzi ha percorso il "nobile ottuplice sentiero" e si è liberato da ogni influsso karmico (il karma è l'"azione" o il "frutto dell'azione", buona o cattiva, che lega l'uomo alla necessità di rinascere, dopo la morte, in una successiva esistenza, migliore o peggiore, secondo che il karma sia positivo o negativo).

La matrice dello zen è il buddismo mahayana o "grande veicolo (di salvezza)". Questa forma di buddismo è nata agli inizi della nostra era, perciò 500 anni dopo Sakyamuni, e si oppone al buddismo hinayana, perché afferma che non solo i monaci, ma anche i laici, restando nella vita laicale, possono giungere al nirvana: perciò è una "grande" via, possibile a tutti. Il suo ideale di santità non è l'arhat, ma il bodhisattva, cioè colui che per la ricchezza dei suoi meriti è "destinato al risveglio" (bodhi) ma che per la "compassione" (karuna) che nutre verso gli altri esseri viventi fa il voto di restare nel samsara e quindi di non giungere al "risveglio" e perciò alla salvezza definitiva, vale a dire al nirvana, finché non ha aiutato tutti gli esseri, con la ricchezza dei suoi meriti, a giungere alla liberazione totale. In tal modo la realizzazione del suo voto di divenire un Buddha, cioè un "risvegliato", è rinviata all'infinito. Di qui la grande devozione di cui sono oggetto i bodhisattva nel buddismo mahayana: essi per la loro "compassione" sono considerati veri salvatori.

Ma ciò che maggiormente qualifica e specifica il buddismo mahayana è il "vuoto", la "vacuità" (shunyata), che non significa, come per gli occidentali, privazione, assenza di qualche cosa (una bottiglia è "vuota" quando non c'è acqua dentro), ma significa "vuoto" di determinazioni e di identificazioni, quindi la realtà assoluta. Infatti tutto ciò che è determinato e qualificato, ha un'esistenza relativa e non assoluta. Quindi la realtà assoluta è "vuota" di ogni forma determinata e in quanto tale limitata e condizionata. Perciò la "vacuità" è l'essenza profonda della realtà. Questo significa che per raggiungere la realtà assoluta bisogna "svuotare" la mente da ogni idea, da ogni pensiero, e "svuotare" il cuore da ogni attaccamento e da ogni desiderio. Questo è ciò che intende realizzare lo zen.

Quando il buddismo mahayana si diffonde in Cina, si formano due scuole: quella del Nord e quella del Sud. Sono scuole diverse tra loro in molti punti, ma tutte considerano la pratica della meditazione in posizione seduta come la base del buddismo. Tale pratica in cinese è detta ch'an. Colui che l'ha introdotta in Cina nel 540 d.C. è il monaco indiano Bodhidharma, che perciò è considerato il primo patriarca della scuola ch'an. Questa, portata nel secolo VIII da alcuni monaci cinesi in Giappone, diventa scuola zen.

Attualmente ci sono in Giappone due scuole di zen, che differiscono sia per la maniera di concepire l'"illuminazione" (satori), sia per la maniera di raggiungerla: lo zen rinzai e lo zen soto. Il primo, fondato in Cina da Linji (Rinzai, in giapponese, 867) e introdotto in Giappone dal monaco Eisai (1141-1215), mette l'accento sull'effetto di scossa psicologica prodotto dal satori e sulla meditazione del koan, come mezzo per raggiungere il satori. Il secondo, portato in Giappone dal monaco Eihei Dogen al suo ritorno dalla Cina nel 1227, pone l'accento unicamente sul meditare quietamente seduti (zazen). Ecco che cosa insegna Dogen: "Il punto pil importante nello studio della Via è lo zazen [...]. Perciò i discepoli dovrebbero concentrarsi unicamente sullo zazen e non confondersi con altre cose. La via dei Buddha e dei Patriarchi è soltanto zazen. Non occupatevi d'altro". E al discepolo Ejo che gli chiede se è utile combinare lo zazen con la lettura dei testi e con la meditazione dei koan, Dogen risponde: "Quantunque una certa comprensione sembri emergere dall'analisi del koan, ciò produce l'effetto di allontanare ancora più la via del Buddha e dei Patriarchi. Se consacrate il vostro tempo a fare lo zazen senza desiderare di sapere nulla e senza cercare l'illuminazione (satori), ecco, questa è proprio la via dei Patriarchi. Quantunque i vecchi maestri insistessero su entrambe le cose, cioè sulla lettura delle scritture e sulla pratica dello zazen, è tuttavia chiaro che ponevano l'accento sullo zazen. Taluni guadagnavano l'illuminazione attraverso il koan, ma il merito spettava allo zazen. In realtà, il merito è solo dello zazen" (Reiho Masunaga, Breviario di Solo Zen, cit., 101 s).

Tre dunque sono i termini che definiscono lo zen: zazen, koan, satori. Lo zazen consiste nel sedere su un cuscino nella "posizione del loto", cioè con le gambe incrociate, il busto eretto e tenuto perfettamente verticale, in modo che la punta del naso sia verticale all'ombelico, il capo leggermente inchinato in avanti, le mani aperte l'una sull'altra, gli occhi semichiusi e fissi su un punto. La respirazione deve farsi ordinariamente attraverso il naso, non attraverso la bocca: quando si è assunta la posizione giusta, si inspira profondamente attraverso il naso, si trattiene l'aria per un certo tempo e poi la si lascia uscire attraverso le labbra leggermente aperte, il più lentamente possibile, finché i polmoni siano completamente svuotati. Il sedere nella posizione del loto e la inspirazione ed espirazione, tranquilla e regolare, hanno lo scopo di favorire la meditazione, per la migliore circolazione del sangue e per la calma e il rilassamento che producono: cosicché, oltre a favorire la meditazione, sono giovevoli alla salute psicofisica.

Ma, parlando di meditazione zen, bisogna mettere da parte ogni idea occidentale di meditazione: questa consiste nel riflettere su un'idea, su un testo scritto, per cercare di comprenderlo, di vederne i nessi logici e le possibili applicazioni alla realtà concreta. In campo religioso, la meditazione è una riflessione prolungata su un'idea o un fatto di natura religiosa, su un testo della Sacra Scrittura, per cercare di comprenderlo con l'intelligenza, gustarlo col cuore e applicarlo alle circostanze della propria vita, per conformare il proprio modo di pensare e i propri comportamenti a quanto si è meditato. Poiché ci si rende conto che con le proprie forze non si può realizzare nella propria vita quanto si è meditato, spontaneamente la meditazione si risolve in colloquio con Dio, sia per lodarlo e ringraziarlo di quanto ci ha detto attraverso la meditazione della sua parola, sia per chiedergli la grazia di compiere quanto egli ha fatto conoscere nella meditazione.

In che cosa consiste la meditazione zen? Risponde D. T. Suzuki: "Per meditare, l'uomo deve concentrare il suo pensiero su qualcosa, ad esempio, l'unicità di Dio o il suo infinito amore o la temporaneità delle cose. Ma questo è proprio quanto lo zen respinge" (ivi, 43). Infatti la meditazione zen vuole svuotare la mente da ogni pensiero, da ogni affermazione e da ogni negazione, da ogni elaborazione concettuale per giungere al puro vivere, al puro essere, spoglio di ogni determinazione: "Ciò che lo zen aspira a cogliere nel suo modo più vivido e diretto è il fatto fondamentale della vita nel suo darsi [...]. Una volta che l'uomo l'abbia raggiunto in profondità, una pace assoluta subentra nella sua mente ed egli vive come dovrebbe vivere" (ivi, 47), cioè "vive", "è", semplicemente.

La meditazione zen perciò tende a porre la mente in uno stato di perfetta immobilità e incoscienza. Afferma un vecchio maestro zen, Sekiso: "Ferma tutti i tuoi desideri; lascia che la muffa cresca sulle tue labbra; renditi come un perfetto pezzo di seta candida; lascia che un tuo solo pensiero sia un'eternità; fatti diventare come morta cenere, inerte e fredda; lascia che il tuo corpo e la tua mente si trasformino in un oggetto inanimato, simili nella natura a una pietra o un pezzo di legno; quando avrai raggiunto uno stato di perfetta immobilità e incoscienza, ogni segno di vita si partirà da te ma anche ogni traccia di limite. Non una sola idea disturberà la tua coscienza, quando allora all'improvviso tu giungerai a percepire una fulgida luce di compiuta felicità [...]. La tua esistenza è stata liberata da ogni impaccio; sei divenuto esperto, luminoso e trasparente. Raggiunta una chiarissima percezione dell'autentica natura delle cose, esse ora ti si manifestano come screziati fiori di inafferrabile realtà. Qui si manifesta quel semplicissimo sé che è il volto originario del tuo essere" (citato in D. T. Suzuki, Introduzione al Buddismo Zen, cit., 49).

La meditazione zen ha dunque lo scopo di portare chi la pratica alla radice dell'essere, alla realtà ultima che è senza determinazioni e quindi è vacuità, al puro Sé, nel quale si dissolve l'io individuale, che l'illusione fa credere di essere il vero Io. Bisogna abolire ogni dualità, che è frutto di erronea immaginazione. L'"io" personale non esiste; esiste la Natura, la Vita, l'Uno, il Sé.

Ma come si può raggiungere questo scopo? Risponde lo zen: non attraverso il pensiero concettuale e logico, che perciò dev'essere abolito e distrutto, ma attraverso l'intuizione, frutto di un'esperienza interiore personale. Per abolire il pensiero logico, ci sono tre mezzi.

Il primo è lo shikantaza, praticato dallo zen soto: esso significa "stare quietamente seduti senza fare nulla". Si tratta di fare zazen di fronte a un muro: "Immobili come una roccia. / Pensate al non-pensiero. / Come pensare al non-pensiero? / Non pensando". Come fare? Non compiere alcuno sforzo per bloccare i pensieri che inevitabilmente vanno e vengono, ma lasciare che la mente si calmi e poi si fermi da sola.

Il secondo mezzo per abolire il pensiero è la concentrazione sulla respirazione, che può avvenire in due modi: il primo consiste nel contare i ritmi della respirazione da 1 a 10, usando i numeri dispari (1, 3, 5...) per contare le inspirazioni e i numeri pari (2, 4, 6....) per contare le espirazioni; quando si è giunti alla fine, si comincia da capo; il secondo consiste nel concentrare l'attenzione sulla respirazione senza contare, ma facendo attenzione, quando si inspira, soltanto all'inspirazione, e, quando si espira, solamente all'espirazione. Con questo metodo si elimina ogni altra preoccupazione e si raggiunge la pace interiore.

Il terzo mezzo per svuotare la mente dal pensiero razionale è l'uso del koan. Questo mezzo può essere abbinato allo shikantaza, cosicché non è esclusivo dello zen rinzai. Il koan è un aneddoto che non ha un senso logico oppure è una domanda a cui non si può rispondere in maniera sensata. Chiede un maestro al discepolo: "Mostrami il tuo volto prima della nascita". Un monaco chiede al maestro zen Chao-Chou: "Qual era l'intenzione di Bodhidharma quando venne in Cina?" Risposta: "Guarda il cipresso nel giardino". Il maestro Hakuin batte le mani, poi alza una mano e chiede al discepolo: "Senti il rumore di una sola mano?". Un novizio chiede a Chao-Chou: "Parlami dello zen". Chao-Chou lo interroga: "Hai fatto colazione?". "Sì, maestro, ho fatto colazione". "Allora va' a lavare i piatti".

Qual è lo scopo del koan? È quello di umiliare la ragione e di mostrarne l'impotenza. In pratica, è quello di mettere il discepolo - è sempre il maestro zen che dà a ogni discepolo il koan adatto per lui - di fronte a un vicolo cieco e a una strada senza uscita, da cui deve cercare in ogni modo di uscire. Quando, dopo inutili sforzi, si accorgerà di non poter trovare una soluzione logica e quindi si convincerà di dover abbandonare la ragione logica, egli comincerà a praticare il koan nella maniera giusta, riflettendo giorno e notte su di esso con grande intensità fino a che diventerà egli stesso il koan. Continuando ad applicarsi, tutto a un tratto, il koan scomparirà dalla sua coscienza e questa si troverà completamente vuota. Basterà allora una qualsiasi occasione - un suono che colpisce l'udito, la vista di un oggetto, una sensazione forte - perché il suo spirito si apra a una "nuova visione" della realtà: è l'"illuminazione" (satorì). Questo processo può durare anche alcuni anni e può essere necessario ricorrere a diversi koan; però chi si applica con costanza al koan sotto la direzione di un maestro zen giunge necessariamente al satori.

Questo consiste in una "nuova visione" delle cose, cioè nel vedere la realtà "come realmente è". Infatti la realtà è unitaria, non duale, come appare al pensiero logico che distingue soggetto e oggetto, essere e non-essere, sì e no, l'io empirico e l'Io (o il Sé) assoluto. Chi giunge al satori vede la realtà non attraverso il pensiero logico, ma intuitivamente: non dunque come appare illusoriamente attraverso lo schermo del pensiero discorsivo, ma come è realmente. È essenziale però notare che il satori non si comprende mediante un'analisi intellettuale, ma soltanto per esperienza personale. Chi non lo ha sperimentato non può dire che cosa esso sia. E neppure può dire che cosa sia lo zen, perché - come dice D. T. Suzuki - "senza il raggiungimento del satori nessuno può penetrare nella verità dello zen" (Introduzione al Buddismo Zen, cit, 95).

"Questo - dice ancora D. T. Suzuki - i seguaci zen considerano del tutto soddisfacente. Tanto a lungo la logica è stata data per noi definitiva che ci siamo fatti legare, abbiamo perduto la nostra libertà di spirito e i fatti della vita reale ci sono sfuggiti. Ma ora disponiamo di una chiave per risolvere il problema; siamo ridivenuti i maestri della realtà; le parole hanno perduto il loro dominio su di noi. Se non ci va di definire vanga una vanga, abbiamo l'assoluto diritto di farlo; non sempre una vanga ha da essere tale; il che, secondo i maestri zen, esprime nel modo più appropriato lo stato di realtà che rifiuta di farsi soffocare dai nomi. Lo scavalcare la tirannia dei nomi e della logica è, allo stesso tempo, un'emancipazione spirituale, l'anima non essendo più divisa da se stessa. Con l'acquisto della libertà dello spirito l'anima ottiene il pieno possesso di sé; la nascita e la morte cessano di tormentarci, dato che non esiste altro luogo in cui si diano simili dualità; e noi viviamo anche attraverso la morte" (ivi, 63). È quanto è espresso nel famoso gatha di Jenye: "A mani vuote io vado, e la vanga è portata dalle mie mani; / A piedi io cammino, ma sulla groppa di un bue io incedo; / Quando traverso un ponte, o stupore, l'acqua non scorre, ma è proprio il ponte a fluire". Questo è lo zen: la vanga è nelle mani vuote e non è l'acqua ma il ponte che scorre. È la "nuova visione" della realtà intuita nello zazen.

Ci sono alcuni specialisti cristiani dello zen - a cui abbiamo accennato all'inizio - i quali ritengono che esso, in base all'esperienza che ne hanno fatto, giungendo nella pratica integrale dello zazen fino all'illuminazione (satori), possa conciliarsi con il cristianesimo. Anzitutto essi affermano che, se "nello zen non si parla di Dio, ci si tiene a non essere considerati atei". Nel buddismo zen "ci si rifiuta di esprimere Dio in concetti e parole", ma "anche se l'illuminato zen si rifiuta di parlare di Dio in connessione con la sua esperienza spirituale, non per questo si deve designare lo zen come ateistico [...]. Il fatto è comunque che vi sono in Giappone bonzi che hanno praticato lo zen per molti anni e sono arrivati alla fede in Dio" (H. M. Enomiya Lassalle, Zen, via verso la luce. Roma, Ed. Paoline, 1961, 99; 101). Lo stesso autore aggiunge che "l'illuminazione dispone l'uomo alla fede religiosa" e "aiuta, o per lo meno può aiutare, all'approfondimento delle verità religiose"; che "il distacco dalle creature come viene compiuto nello zen, può senza dubbio aiutare indirettamente a un avvicinamento a Dio", anche se "il buddismo interpreta la sua esperienza in senso monistico" e "ha ampiamente utilizzato l'illuminazione per approfondire la sua concezione dell'universo, il monismo", perché "l'illuminazione in sé non afferma niente su monismo, panteismo o monoteismo" e chiunque l'abbia sperimentata, lo interpreterà con la sua concezione dell'universo" (ivi, passim).

Talune pratiche dello zen - fatte col necessario discernimento e avendo una solida formazione cristiana - possono aiutare la preghiera cristiana. Certamente, è necessario evitare di assimilare la "mistica" dello zen alla mistica cristiana, facendo appello ai grandi mistici cristiani. Si tratta di due realtà che, se hanno indubbiamente taluni punti di convergenza, sono nella sostanza molto diverse. "La contemplazione buddista - osserva il p. J. López Gay, professore di missiologia all'Università Gregoriana - è un'autentica esperienza interiore che tende a illuminare il più profondo dello spirito umano. Non si tratta di un'esperienza di tipo religioso, di un incontro amoroso con Qualcuno, ma di divenire partecipe cosciente della realtà di ciò che è l'Uno, e della sua unione con una dottrina della Natura universale".

Nello zen l'esperienza della meditazione va approfondendosi verso il "centro" del proprio essere, e in ciò lo zen può essere avvicinato alla tradizione mistica cristiana, nella misura in cui questa aspira a incontrare nel fondo dell'anima Dio-Trinità che vi risiede. In questo itinerario il contemplativo dello zen traversa il vuoto e il nulla, abbandonando pensieri, immagini e giunge a uno stato psichico provocato artificiosamente mediante diverse tecniche. Invece, nella mistica cristiana, "l'incontro con Dio - che è incontro con il Dio uno e trino nella luce della fede - non potrà mai essere ottenuto per mezzo di una qualsiasi tecnica o sforzo umano: esso è dell'ordine del dono gratuito. È qui che appare ciò che separa più radicalmente le due mistiche. Il cammino dello zen è così uno sforzo per oltrepassare ogni presupposto metafisico o dogmatico, mentre nell'itinerario cristiano le luci della rivelazione e l'amore per Cristo hanno dovuto necessariamente crescere con la frequentazione della Sacra Scrittura e dei sacramenti" ("Zen", in Dictionnaire de Spiritualité, vol. XVI, 1622 s).